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Articoli brevi

Antonio Mele economistaSono professore ordinario di Finanza all’Università della Svizzera Italiana (USI) e presso lo Swiss Finance Institute (SFI), e Research Fellow al Center for Economic Policy Research (CEPR) di Londra.

Mi occupo di volatilità dei mercati, dei rapporti tra mercati finanziari e il ciclo economico, e di microstruttura dei mercati. Alcuni dei miei lavori hanno dato luogo a indicatori di volatilità calcolati in tempo reale da Chicago Board Options Exchange (Cboe) e S&P Dow Jones Indices e nuovi strumenti di negoziazione per la protezione del rischio di volatilità dei tassi d’interesse e degli spread sul credito. I miei interessi più recenti riguardano la sostenibilità del debito pubblico, le riforme fiscali, le reazioni dei mercati finanziari a queste riforme, e la storia economica, con riferimento particolare a quella italiana dalla Seconda guerra mondiale ai nostri giorni.

Troverete i dettagli del mio lavoro accademico e dei miei contributi all’industria nella versione inglese di questo sito o nel mio profilo Google Scholar. In questa versione in italiano, raccolgo i miei pensieri sull’economia, la politica e la storia. Talvolta, anticipo alcune delle mie idee contenute in un libro che sto preparando in italiano. Altre volte, elaboro in modo più articolato i messaggi lapidari che lascio o che ho lasciato su Twitter nei miei momenti di tempo libero.

Buona lettura!

Antonio Mele economistaSono professore ordinario di Finanza all’Università della Svizzera Italiana (USI) e presso lo Swiss Finance Institute (SFI), e Research Fellow al Center for Economic Policy Research (CEPR) di Londra.

Mi occupo di volatilità dei mercati, dei rapporti tra mercati finanziari e il ciclo economico, e di microstruttura dei mercati. Alcuni dei miei lavori hanno dato luogo a indicatori di volatilità calcolati in tempo reale da Chicago Board Options Exchange (Cboe) e S&P Dow Jones Indices e nuovi strumenti di negoziazione per la protezione del rischio di volatilità dei tassi d’interesse e degli spread sul credito. I miei interessi più recenti riguardano la sostenibilità del debito pubblico, le riforme fiscali, le reazioni dei mercati finanziari a queste riforme, e la storia economica, con riferimento particolare a quella italiana dalla Seconda guerra mondiale ai nostri giorni.

Troverete i dettagli del mio lavoro accademico e dei miei contributi all’industria nella versione inglese di questo sito o nel mio profilo Google Scholar. In questa versione in italiano, raccolgo i miei pensieri sull’economia, la politica e la storia. Talvolta, anticipo alcune delle mie idee contenute in un libro che sto preparando in italiano. Altre volte, elaboro in modo più articolato i messaggi lapidari che lascio o che ho lasciato su Twitter nei miei momenti di tempo libero.

Buona lettura!

Notizie, articoli brevi, commenti

28 Aprile 2022

Mercati in tempo di guerra

Tag: Economia reale e mercati finanziari, Indipendenza delle banche centrali

Il 23 marzo, l'Associazione Bancaria Ticinese ha organizzato una tavola rotonda sul tema Mercati in tempo di guerra.

Il mio intervento è disponibile qui. Le slides della mia presentazione sono disponibili qui. I miei commenti sono stati ripresi da “Il Corriere del Ticino” (formato PDF).

Numerosi sono stati gli shock che le nostre economie hanno assorbito negli ultimi quindici anni. Abbiamo conosciuto credit crunch e recessioni mai così profonde dai tempi della Grande Depressione, crisi del debito pubblico, crisi valutarie, deflazione, pandemie, una guerra in corso proprio nel nostro continente e, proprio ora, inflazione. Durante il periodo deflattivo, ci si interrogava sulle ragioni per l'assenza d’inflazione a dispetto dei massicci interventi monetari delle banche centrali nel mondo; si tratta di temi da me discussi in altri contesti (qui, per esempio). Ma il mondo cambia, e ora lo fa rapidamente. Per comprendere l’inflazione di oggi e le sue conseguenze, è utile guardare ai grandi movimenti nella storia monetaria degli ultimi quarant’anni.

Il periodo dal 1980 al 2007, quello della Great Moderation, rappresenta l’era in cui le economie avanzate conoscono bassa inflazione e bassa volatilità dell’inflazione e del prodotto nazionale. È l’era dell’indipendenza delle banche centrali (almeno di quella statunitense). Inizialmente, questa stessa indipendenza si esprime con l’esperimento monetario della Fed dei primi anni Ottanta del secolo scorso ad opera del suo presidente Paul Volcker (restrizioni monetarie dirette al controllo della massa monetaria). Trova poi la sua strada la più moderna regola di Taylor, o di r-targeting: compito della Fed è di alzare o abbassare i tassi d’interesse di riferimento a seconda della differenza tra inflazione desiderata e inflazione realizzata. Il principio di Taylor rende questa regola ancora più stringente: a fronte di un aumento dell’inflazione la Fed dovrebbe agire in modo tale da far aumentare i tassi di riferimento reali; solo così facendo è possibile stabilizzare il sistema economico a fronte di un aumento dell’inflazione. Per molto tempo, il mondo accademico ha cercato di comprendere se le proprietà della Great Moderation potessero almeno in parte essere ricondotte alla politica monetaria della Fed. Questo periodo coincide infine con una grande e crescente interdipendenza economica delle nazioni che avrebbe condotto alla globalizzazione. La finanza e il commercio diventano internazionali. L’Europa crea l’unione monetaria. 

Il periodo dal 2008 al 2020 non sembra intaccare la nozione d’interdipendenza strategica delle nazioni. Persino le banche centrali appaiono ancora indipendenti. Il loro intervento massiccio non è rivolto a sostenere le nazioni ma a evitare deflazione e a salvare economie afflitte da crisi finanziarie profonde (si tratta di una posizione apparentemente difficile da sostenere, ma che ho difeso qui e qui). Questa politica non genera inflazione; si tratta in effetti di uno dei “misteri economici” nei dibattiti di qualche anno fa. Peraltro, i piani di transizione verso tecnologie di produzione verdi formulati verso la fine di questo periodo contribuiscono ad alimentare aspettative di inflazione contenuta.

La pandemia rivela fragilità critiche e inerenti all’interdipendenza delle nazioni. Le catene di produzione globale si rompono e, anche a causa di una domanda fortemente stimolata dalle autorità di politica economica, l’inflazione ritorna dirompente dopo anni e anni di assenza dalle scene globali. Tutto ciò avviene proprio quando l’importanza della transizione verde trova grande consenso ideologico nel mondo occidentale.

Dal 2022, l'architettura delle interdipendenze strategiche delle nazioni è ovviamente in discussione. La guerra tra Russia e Ucraina e altre forse ancora più generali incertezze geopolitiche rivelano l’esistenza di nodi energetici e vulnerabilità alle quali è esposto l’Occidente. Si progettano riaggiustamenti nella catena globale del valore. Le preoccupazioni geopolitiche di breve termine sembrano volere mettere temporaneamente da parte alcuni aspetti cruciali relativi alla transizione verde. Si progetta una nuova e più vigorosa politica degli armamenti. Il mondo sembra volere somigliare di nuovo a quello degli anni Settanta.

In questo contesto, le banche centrali (la Fed, per ora) danno prova di essere in grado di svolgere un esercizio d’indipendenza. Nella mia presentazione, spiego che i mercati sembrano essere stati preoccupati dagli sviluppi inflattivi molto più che da quelli bellici. Sebbene la guerra stia contribuendo alle tensioni sui prezzi, queste stesse tensioni sono in atto da tempo, e conseguenza diretta delle vicissitudini economiche e di politica economica legate alla pandemia. I mercati azionari sembravano scontare un premio al rischio d’inflazione che la Fed avrebbe per ora dissipato con la decisione di aumentare i tassi d’interesse di riferimento. Si tratta di una dimostrazione di credibilità che molto assomiglia a quella dimostrata negli anni dell’esperimento monetario di Paul Volcker.

Cosa succederà nei prossimi mesi? La Fed sta credibilmente lavorando a creare un clima di stabilità. Inoltre, è lecito ipotizzare che la catena del valore si riaggiusterà, in un modo o in un altro, e relativamente rapidamente. L’evidenza empirica suggerisce che a fronte di squilibri nella catena del valore di questo genere, l’economia e i mercati si aggiustano relativamente rapidamente (in meno di un anno). Si tratta di conclusioni alle quali si può pervenire abbastanza semplicemente. Nelle Figure 1 e 2, per esempio, analizzo il comportamento di alcuni aggregati reali e finanziari in seguito a shock simili a quelli che stiamo vivendo oggi (shock che ho quantificato attraverso il Global Supply Chain Pressure Index messo a punto proprio dalla Fed, disponibile qui). Trovo che economia reale e mercati finanziari tendono a recuperare entro un anno da uno shock di tensione nella catena del valore.

Figura 1: Sviluppi dell’economia reale in seguito a shock nella catena del valore

Figura 2: Sviluppi dei mercati in seguito a uno shock nella catena del valore

 

Nella fase conclusiva della tavola rotonda, ho messo in evidenza le più grandi vulnerabilità che questa fase storica lascia in eredità: l'enorme peso del debito pubblico e l'inflazione (due certezze). Si tratta degli stessi rischi da me discussi in un precedente intervento disponibile qui.

Categoria: Finanza e macroeconomia

27 Aprile 2022

Davvero il futuro è nelle criptovalute?

Tag: Economia reale e mercati finanziari

È oramai da qualche anno che entusiasti investitori promettono che “il futuro è nelle criptovalute”. Tali promesse spesso avvengono in assenza di analisi rigorose della funzione economica di un mezzo di pagamento decentralizzato. È importante, pertanto, formulare dubbi a proposito di questi nuovi postulati al fine di generare sia consapevolezza sia dibattito. Questo breve articolo riprende una mia intervista con il servizio di comunicazione della mia università il 21 marzo disponibile qui e ripresa da swissinfo.ch. Una versione in inglese di questa stessa intervista è disponibile qui.

 

Le criptovalute come mezzo di pagamento?

Le criptovalute rappresentano uno strumento di pagamento alternativo alla moneta che noi tutti conosciamo. È tuttavia difficile immaginare che si tratti di un esperimento in grado di rivoluzionare le nostre future esistenze. Lo sviluppo economico e il progresso delle nazioni si snodano attraverso la creatività e l’ingegno umano. Non ho mai sentito parlare di una rivoluzione industriale avvenuta a causa degli strumenti in grado di facilitare le transazioni commerciali. Ciò di cui si ha semplicemente bisogno è un sistema di pagamenti ben collaudato e stabile. Le criptovalute non sembrano possedere tali attributi di affidabilità.

Cosa non convince delle criptovalute?

L’inerente volatilità. Un mezzo di pagamento deve essere quanto più stabile possibile. Immaginiamo una famiglia che riceva uno o più stipendi in euro ma che abbia allo stesso tempo contratto un debito ipotecario in bitcoins. Le uscite di questa famiglia sarebbero notevolmente influenzate dall’andamento del corso dei bitcoins. Il problema è che questo andamento è notoriamente instabile in parte perché non controllato da un’autorità centrale. L’importanza della stabilità monetaria è riconosciuta dagli ordinamenti giuridici dei paesi industrializzati. La Banca d’Italia, per esempio, è un istituto di diritto pubblico sin dalla legge bancaria del 1936. Essa oggi contribuisce alla determinazione della politica monetaria nell’area euro attraverso la sua partecipazione al consiglio direttivo della Banca Centrale Europea. Nella Confederazione Svizzera, tale importanza è riconosciuta persino dalla Costituzione che, nel suo articolo 99, attribuisce alla Banca Nazionale Svizzera il compito di condurre una politica monetaria nell’interesse del Paese. Un’autorità centrale contribuisce alla stabilità della sua valuta proprio perché gestisce il processo di creazione monetaria ispirandosi dalle condizioni congiunturali di inflazione o deflazione. Al confronto, le criptovalute rappresentano una “moneta” decentralizzata. Il loro processo di creazione è determinato da un algoritmo slegato dalla congiuntura e il loro valore è soggetto a violente fluttuazioni dovute a forze di mercato che non possono essere gestite così come una banca centrale gestisce i meccanismi che assicurano la stabilità della sua valuta. La stabilità dei mezzi di pagamento ha un’utilità pubblica alla quale è difficile volere rinunciare. Allo stato attuale, non sono ancora convinto dai cosiddetti “stablecoins” (le criptovalute che mirano ad ancorare il proprio valore a un certo quantitativo di moneta fiat come il dollaro americano o il franco svizzero). L’adozione di uno stablecoin come mezzo di pagamento richiederebbe una regolamentazione che per ora è lungi dall’essere stata neanche concepita.

Ci sono degli aspetti che vanno valutati anche a livello etico?

Alcune criptovalute consentono transazioni a fronte delle quali è difficile rintracciare l’identità dei contraenti. Tali criptovalute favoriscono pertanto transazioni riconducibili a attività criminali e/o il riciclaggio di proventi illeciti e a queste attività riferibili. È una contraddizione incoraggiare l’utilizzo di mezzi di pagamento che facilitano attività considerate illecite dalla nostra stessa costruzione giuridica.

Quali sono le origini di questo modello “insicuro”?

La manipolazione del mercato. Il concetto è molto semplice. Nel mercato delle criptovalute, esistono operatori, talvolta difficilmente identificabili, che comprano o vendono ingenti quantità di valute allo scopo di influenzarne i corsi e ricavare profitti di breve termine del tutto dissociati dall’economia reale. Sono questi frequenti episodi di manipolazione a esporre un potenziale utilizzatore di criptovalute al rischio di enormi perdite. Questo modello è inoltre insicuro perché frequentemente esposto a episodi di bolle o entusiasmo speculativo.

C’è un tentativo di regolamentarne l’utilizzo?

Vedo in modo assolutamente favorevole il progresso derivante dall’adozione della tecnologia blockchain in ambiti finanziari, amministrativi e commerciali. Le stesse banche centrali potranno prima o poi emettere moneta digitale. Le mie perplessità riguardano l’adozione di criptovalute decentralizzate come mezzo di pagamento. Abbiamo assistito a iniziative di finanziamento di piccole società attraverso l’emissione di “token” digitali. Se regolamentato, questo mercato avrebbe potuto consentire a piccole imprese di accedere a canali di finanziamento innovativi. La regolamentazione è un punto di riferimento imprescindibile perché consente agli investitori di operare con informazioni quanto più accurate possibili. I mercati dei token digitali continueranno a richiedere un’attenzione regolamentale almeno tanto importante quanto quella adottata nell’ambito dei mercati finanziari.

 

Categoria: Stabilità finanziaria

18 Giugno 2021

I mercati dei capitali e la politica economica nel mondo post-Covid

Tag: Mercati del credito, Riforme fiscali, Sostenibilità del debito pubblico

Il 9 giugno, l'Associazione Bancaria Ticinese ha organizzato una tavola rotonda sul tema Borse ai massimi: euforia giustificata?

I miei interventi sono disponibili qui. I miei commenti sono stati ripresi da "Il Corriere del Ticino" (formato PDF) e "La Regione" (formato JPG).

Gli sviluppi dei mercati finanziari negli ultimi mesi stanno sicuramente riflettendo i massicci interventi monetari e fiscali negli Stati Uniti e in Europa. Tuttavia, le valutazioni azionarie a cui assistiamo da mesi non sono necessariamente in linea con i fondamentali dell'economia. Gli interventi pubblici di sostegno alla domanda aggregata producono effetti generalmente transitori. Non è chiaro se, nonostante i propositi, questi stessi interventi saranno in grado di innescare dinamiche di produttività nell'economia reale più elevate di quelle osservate nell'ultimo decennio.

Il mio punto non è cercare di affermare che interventi pubblici di tale portata non siano necessari. Lo sono. La mia tesi è che le valutazioni azionarie allo stato attuale non tengono necessariamente conto dell'incertezza in merito all'efficacia a lungo termine delle politiche economiche epocali dei nostri giorni. Ad alimentare quest'incertezza è un mercato del credito (privato) in affanno nei "paesi periferici" dell'Unione Europea. L'economia dovrà ritrovare un sentiero di crescita spontaneo una volta esaurito lo slancio che andrà a determinarsi grazie al sostegno pubblico. Il buon funzionamento del mercato del credito ne costituisce una premessa indispensabile. Si tratta di una tesi da me discussa in molti altri contesti (qui, qui e qui, per esempio).

Ho infine discusso delle grandi eredità lasciate dagli interventi di politica economica degli ultimi quattordici anni: l'enorme peso del debito pubblico (una certezza) e l'inflazione.

Categoria: Stabilità finanziaria

4 Giugno 2021

Capitali coraggiosi

Tag: Investimenti, Mercati del credito, Ripresa economica

Come reagirà l’economia alle politiche fiscali e monetarie ultra-espansive congegnate per far fronte all’emergenza epidemica? Qual è il ruolo dei mercati finanziari nelle economie post-Covid? Come  dovrebbe operare lo Stato per favorire la circolazione del credito nell’economia reale? Ticino Management ha proposto una Cover Story con un mio intervento nel suo numero di maggio (versione PDF) su questi temi e discussioni limitrofe.

Categoria: Finanza e macroeconomia

6 Marzo 2021

I mercati finanziari e le politiche di sostegno all’economia reale

Tag: Economia reale e mercati finanziari

(Questo breve articolo riprende un mio post per "POST Policy" del 26 febbraio 2021)

L’inizio di questo secolo è stato teatro di frequenti crisi di ogni tipo e spessore ma anche di iniziative in materia di politica economica mai sperimentate precedentemente. In risposta alle crisi sanitaria, economica e sociale arrecate dalla pandemia purtroppo ancora in corso, i bilanci delle banche centrali si sono dilatati di diversi trilioni di dollari e altrettanto generose appaiono essere le azioni e le intenzioni dei governi in materia di politica fiscale. Negli Stati Uniti, l’amministrazione Biden si appresta a mettere in opera un nuovo pacchetto fiscale di quasi 2000 miliardi di dollari. L’Ue ha risposto sinora con un piano di intervento dello stesso ordine di grandezza. Questo piano riveste, come sappiamo, un’importanza politica fondamentale: per la prima volta nella sua storia, l’Ue adotta una vera e propria politica fiscale finanziata da debito comune, nel tentativo di arginare uno degli shock economici più violenti nell’intera storia contemporanea.

Queste misure alimentano la speranza di ritornare a una vita normale e forniscono anche qualche concreta certezza. Non è poco. La società versa oggi in uno stato d’incertezza così profonda che i mercati, reali e finanziari, se abbandonati a loro stessi, non sarebbero più in grado di ritrovare un qualche e imprecisato stato di equilibrio se non al costo di decenni di stagnazione. Lo Stato e i suoi massicci interventi sono a ricordare che la società, non solo l’economia, ha bisogno di istituzioni e di guide democratiche sicure. Peraltro, le politiche intraprese sono proprio da manuale; tutte, potenzialmente, quindi, detengono il potenziale di curare un’economia maltrattata come mai noi avremmo immaginato solo un anno fa. Persino la cosiddetta “politica monetaria non convenzionale” è oramai divenuta “convenzionale”. La Figura 1 dipinge un quadro a dir poco inenarrabile. In meno di un anno, la Fed e la Bce hanno sostanzialmente raddoppiato la quantità di risorse di liquidità a disposizione dell’economia. Eravamo soliti pensare che compito di una banca centrale fosse quello di reagire a shock congiunturali al fine di assicurare la stabilità dei prezzi (e quindi del valore della moneta). Prolungare per così tanto tempo tali risposte per gli stessi fini conferisce un nuovo carattere a questa politica. Questo nuovo carattere è ancora più marcato in paesi come gli Stati Uniti, dove la Fed continua a sostenere classi di attività finanziarie che erano state all’epicentro della crisi finanziaria globale del 2007-2009.

Siamo in grado di comprendere se questo policy mix (fiscale e monetario) riuscirà a liberare le economie occidentali dalle trappole in cui esse stesse si trovano? Quali sono gli effetti collaterali e indesiderati di queste politiche? Comprendiamo a fondo i canali di azione e retroazione con cui queste colossali iniziative agiscono sull’economia? Sebbene il QE (il termine con cui ci riferiamo per descrivere questa politica monetaria) è ormai materia di manuale di economia monetaria, non è, purtroppo, chiaro di cosa questo QE abbia ancora bisogno al fine di potere dispiegare appieno i suoi effetti.

Figura 1 (Fonte Federal Reserve Bank of St. Louis)

 

Storicamente, la Bce intraprende il QE tra il 2011 e il 2012, nel bel mezzo della crisi del debito pubblico europeo e di una fase recessiva generalizzata. L’intenzione della Bce era di fornire liquidità a istituti di credito al fine di evitare crisi sistemiche. Se, per cominciare, una grossa banca detiene titoli di stato con aumentato rischio di insolvenza e, per conseguenza, subisce un deterioramento dei suoi bilanci, i volumi dei prestiti da questa stessa banca concessi non possono che stagnare, contribuendo così a deprimere la domanda aggregata. Ma una domanda aggregata depressa conduce a un ulteriore aggravamento del rischio di insolvenza delle nazioni più vulnerabili. Si tratta del “circolo diabolico” di cui molti economisti discutevano un decennio fa. La Bce intendeva interrompere questo circolo fornendo liquidità a medio termine a istituti finanziari proprio al fine di evitare eventi disordinati nei mercati con conseguenze devastanti sull’economia reale. Interventi di simile scopo e portata sono stati ripetutamente messi in opera, ed è inutile che io ne commenti i dettagli in questa sede. L’aspetto forse più significativo è l’acquisto su grande scala di titoli sovrani europei sul mercato secondario.

L’obiettivo principale della Bce era ed è la stabilità dei prezzi. Le economie europee erano e sono afflitte da un’inflazione anemica, che rischia di imbrigliare la domanda aggregata in uno stato stagnante e per decenni. Il grande rischio è l’inflazione negativa. Quasi un secolo fa, gli economisti avevano identificato nell’inflazione negativa una tra le tante ragioni della Grande Depressione degli anni Trenta del secolo scorso. Perché? Intuitivamente, i debiti non possono che aumentare (in termini reali) quando l’inflazione è negativa. Pertanto, quando l’inflazione è negativa, le probabilità (e le frequenze) d’insolvenza aumentano per le imprese indebitate, contagiando per questa via i bilanci delle banche, deprimendo ulteriormente la domanda aggregata, e causando ancora più inflazione negativa. Si tratta di un altro esempio di circolo vizioso con effetti finali devastanti: i mercati finanziari, quelli del debito in questa circostanza, amplificano gli sviluppi del ciclo economico reale, funzionando da “acceleratore finanziario”. Esistono tanti altri esempi a illustrare come simili meccanismi di acceleratore finanziario possano innescare sviluppi e volatilità indesiderati del ciclo economico. Non ho il tempo di parlarne in questo intervento. Ma scongiurare tali sviluppi attraverso una politica monetaria “non convenzionale” è quanto di più ragionevole possa farsi a memoria delle lezioni apprese dalla storia e dal pensiero economico. Non si è trattato e non si tratta di sostenere debito pubblico sovrano (compito non attribuito e a mio avviso non attribuibile alla Bce), ma di garantire la stabilità dei prezzi.

Non esiste cura da cavallo senza effetti collaterali. Si tende, oggi, spesso, a porre in rilievo gli effetti distorsivi di questa cura sui prezzi delle attività finanziarie. Primo esempio tra tutti è la diminuzione dei rendimenti dei titoli governativi. La credibilità della politica monetaria della Bce ha convinto i mercati che il rischio d’insolvenza di titoli sovrani è, almeno per ora, limitato anche per paesi che presentano un indebitamento pubblico superiore al 150% sul PIL. Si tratta di una conseguenza naturale del QE, sebbene, lo ricordo, non espressamente voluta: lo scopo del QE è la stabilità dei prezzi. In realtà, un costo del debito così basso potrebbe tentare i governi futuri di indebitarsi ulteriormente per iniziative non necessariamente utili per la crescita del Paese. Ma non per questo la Bce poteva esimersi da un intervento di tale portata. Spetterebbe ai governi futuri dimostrare responsabilità e lungimiranza.

Sono riuscite le banche centrali a riavvitare quei sani processi inflattivi volti a garantire la stabilità finanziaria? È ancora troppo presto per dirlo. Vi è tuttavia un timore diffuso che uno degli effetti collaterali di una politica monetaria così espansiva sia stata un’inflazione delle quotazioni azionarie, con prezzi presumibilmente distorti e, pertanto, non in grado di dirci davvero molto sui fondamentali dell’economia: la Figura 2 fa vedere che, a dispetto dei gravissimi sviluppi economici, le valutazioni borsistiche sono a dir poco euforiche. La domanda del tutto naturale è: quali saranno le conseguenze del QE per l’economia reale? Sarebbe auspicabile che l’esuberanza finanziaria rappresentata nella Figura 2 corrispondesse a un quadro macroeconomico internazionale quanto meno positivo. Il timore è, invece, che questi prezzi abbiano un carattere autoriflessivo, conseguenza (non intenzionale) di una liquidità alla frenetica ricerca di profitti immediati e apparentemente non in rapporto con l’economia reale, con l’occupazione per esempio, e in generale con l’aspettativa di un rapido ripristino di una situazione di normalità.

Figura 2 (Fonti: Sito web di Robert Shiller: http://www.econ.yale.edu/~shiller/data.htm e Federal Reserve Bank of St. Louis)

 

Andiamo più in fondo. La Figura 3 rappresenta l’evoluzione dei prestiti bancari erogati a aziende non finanziarie nell’ultimo ventennio e nell’area euro. I paesi “centrali” sembrano avere tratto benefici dal QE. I paesi “periferici” (tra cui l’Italia) sembrano invece essere afflitti da una “regressione finanziaria”: in Italia, le banche sembrano prestare meno proprio quando è necessario prestare di più. Questa “prociclicità” nell’erogazione del credito rappresenta una vera e propria défaillance dei mercati che andrebbe curata con strumenti adeguati e perentori. I meccanismi di trasmissione di politica monetaria non sono compresi sino in fondo in questi frangenti storici. Ma questi dati fanno sorgere il sospetto che la crisi pandemica non presenterà i tratti rigorosi di uno “shock simmetrico”: non tutti i paesi saranno necessariamente colpiti nello stesso modo. Da dove proviene questa asimmetria nel comportamento dei sistemi creditizi in Europa? Perché, per esempio, l’Italia versa in queste condizioni? Forse le banche italiane prestano meno che in altri paesi a causa di una domanda di credito meno qualificata? È la regolamentazione sui requisiti di capitale (figlia sicuramente legittima della crisi finanziaria globale) ad essere particolarmente stringente? Oppure, forse, le stesse banche italiane non prestano proprio perché travolte da grandi difficoltà? Occorrono dati granulari per affrontare temi di identificazione statistica così delicati. Vale tuttavia ricordare che la domanda aggregata interna è oggi depressa più che mai e che, qualunque ne sia la ragione, il sistema creditizio sta fallendo nella missione di irrorare ninfa vitale nelle vene dell’economia reale. Ci troviamo, ancora una volta, nella trappola dell’acceleratore finanziario. I mercati creditizi funzionano male perché l’economia reale è bloccata e perché l’appetito al rischio delle banche è scarso in previsione di bilanci ingolfati da crediti deteriorati; d’altro canto, l’economia resta bloccata (anche) perché i mercati creditizi non stanno funzionando. A rendere questa spirale ancora più perversa è il sovrapporsi di un ulteriore circolo vizioso, quello dell’incertezza-stagnazione-incertezza, innescato dalle incertezze relative alle grandi emergenze sanitarie, economiche e sociali: a causa di queste incertezze, nei prossimi anni le banche presteranno poco, e la domanda aggregata rimarrà depressa; ma questa domanda depressa contribuirà a uno scarso appetito per il rischio. Quando gli animal spirits operano in questo modo, lo Stato deve intervenire. Il Recovery Plan è sicuramente un punto di partenza fondamentale per il rinnovo e il potenziamento delle produttività del Paese.

Figura 3 (Fonte: Euro Area Statistics; https://www.euro-area-statistics.org/?lg=en, e elaborazioni dell’autore)

 

Ma i mercati reali necessitano di un ulteriore sostegno. Essi dovrebbero essere resi partecipi di parte dei processi decisionali di finanziamento. Non è sufficiente pianificare una politica fiscale, seppur massiccia, come quella che sta per essere approntata con il Recovery Plan. Occorre anche creare gli incentivi affinché il sistema creditizio possa cominciare a prestare di nuovo, a beneficio dei settori meritevoli, quelli con alta produttività e in grado di trasformare il volto del Paese, valorizzando quelle vocazioni imprenditoriali italiane rimaste per così troppo tempo inespresse. Negli anni del miracolo economico, gli istituti di credito speciale e la finanza basata sulle garanzie statali soppiantarono la finanza del rischio. Una sostituzione discutibile e discussa dagli storici economici. Ma nelle circostanze odierne, le nostre banche mal digeriscono il rischio. Sostenere il sistema creditizio con garanzie pubbliche rappresenta l’anello mancante al policy mix monetario e fiscale di cui i nostri tempi necessitano. Una via, forse solo iniziale, per intraprendere questi obiettivi potrebbe consistere proprio nel destinare una parte del Recovery Plan a costituzione di garanzie statali al sistema creditizio. È prematuro in questa sede progettare forma e sostanza di governance e, soprattutto, dei meccanismi di trasferimento dei rischi. Giova ricordare che l’Italia già dispone di strutture istituzionali pubbliche in grado di recepire un progetto di tale portata. Peraltro, i meccanismi di trasferimento dei rischi non possono ignorare di includere incentivi volti a evitare il “rischio morale”. Non si tratta di elargire sovvenzioni a pioggia. Al contrario, le banche devono essere incentivate a prestare bene. Affinché gli interessi delle banche siano allineati agli interessi dello Stato (e, quindi, della collettività), è pertanto necessario che le garanzie statali siano allo stesso tempo accompagnate da una parziale condivisione dei rischi da parte del sistema creditizio (skins in the game), una condivisione imprescindibile per la responsabilizzazione del sistema creditizio. Maggiore è la condivisione di questi rischi, minore sarà il peso del debito futuro attribuibile all’esistenza di queste garanzie. Maggiore è questa stessa condivisione, minori saranno gli incentivi che le banche avranno nell’erogare crediti. Sarà la politica a dovere trovare un punto di equilibrio in questo difficile dilemma.

Questo è il momento di cui l'Italia ha bisogno per far dialogare Stato, mercati e istituzioni. Non avremmo certo avuto bisogno di tali proposte se non fossimo giunti sin qui. Le risorse del Recovery Plan sono limitate. Esse serviranno a disinnescare alcune delle trappole di cui ho cercato di discutere in questo intervento. Ma il vero obiettivo è la nascita di un sistema economico creativo e in grado di autosostenersi restituendo ai mercati finanziari una funzione nobile e ausiliaria di sostegno a una crescita robusta e durevole.

Categoria: Finanza e macroeconomia

11 Febbraio 2021

Finanza, economia reale e le risorse del Recovery Plan

Tag: Economia reale e mercati finanziari

Una breve intervista con Vitaliano D'Angerio nel Sole 24 Ore del 6 febbraio 2021.

Discutiamo dei “predatori di Wall Street”, di nessi della finanza con l’economia reale, e della possibilità di utilizzare parte delle risorse del Recovery Plan come garanzia a fronte di prestiti erogati nel sistema creditizio privato.

 

Categoria: Finanza e macroeconomia

14 Maggio 2020

Salvataggi, incertezze e politica economica ai tempi del Covid-19

Tag: Crisi finanziaria, Debito pubblico, Economia reale e mercati finanziari

(Questo breve articolo riprende un post per "POST Policy" del 29 aprile 2020 con Renato Loiero, Direttore, Servizio Bilancio dello Stato, Senato della Repubblica Italiana)

Le grandi fluttuazioni dei mercati, sebbene ancora in essere, sembrano relativamente più contenute rispetto a quelle che avevano accompagnato l’esplosione della pandemia verso la fine di febbraio. Per esempio, in questi giorni, “l’indice della paura” di Wall Street, l'indice VIX di Chicago Board Options Exchange, si attesta su valori molto meno della metà del picco di oltre 80 punti percentuali registrato il 16 marzo, il suo record storico (dinamiche che avevo commentato in un post precedente). L'incertezza che domina i mercati è significativamente meno marcata rispetto a quella di qualche settimana fa. Perché? Per tante ragioni. Prima tra tutte è che la politica economica sembra disposta a volere imparare, anche se non sempre in modo disciplinato, dalle lezioni impartite dalla crisi globale finanziaria dello scorso decennio. E' l'auspicio che avevo formulato in un'intervista con un settimanale locale il 5 aprile 2020. Le principali banche centrali stanno in effetti intervenendo massicciamente e capillarmente nel tentativo di sostenere i mercati. I meccanismi decisionali della politica fiscale nel mondo cominciano probabilmente ad imboccare una sorta di sentiero di equilibrio. A noi sembra ragionevole esprimere cauto ottimismo e credere che i vertici a livello europeo in queste settimane ridurranno l’incertezza che aleggia intorno ai meccanismi di finanziamento delle politiche di risanamento dell'economia.

Ridurre quest’incertezza fa molto bene ai mercati. Ne sia d’esempio il comportamento degli indici di volatilità e gli effetti di retroazione che da questo comportamento scaturiscono. Una minore incertezza fa abbassare gli indici di volatilità del reddito fisso (per esempio il Treasury VIX, o TYVIX) e del mercato azionario (il VIX) (*) Infatti, il comportamento di questi indici entra spesso nel computo degli input decisionali di grandi operatori del risparmio gestito. Se, per esempio, il VIX è molto alto, questi operatori hanno tendenza a vendere. Ma queste vendite, se ingenti, creano le premesse per un ulteriore aumento della volatilità, innestando quindi quel circolo vizioso che aveva contribuito alle grandi turbolenze dei mercati del mese di marzo. Questi effetti di retroazione sono molto preoccupanti, e potrebbero interessare la sfera dell’economia reale. Se, durante questi circoli viziosi, solo uno dei grandi operatori dovesse mai inceppare in perdite colossali, i mercati finanziari globali sarebbero a dir poco devastati. La crisi finanziaria globale del decennio scorso ci insegna che tali sviluppi distruggono l’economia reale. Ai tempi del Covid-19, l’economia reale è già seriamente compromessa. Cercare perlomeno di mantenere mercati finanziari ordinati dovrebbe essere una delle priorità assolute in materia di politica economica. Rassicura, dunque, in questi giorni, osservare volatilità molto più contenute rispetto a marzo, perché questi valori contenuti indeboliscono sensibilmente gli effetti di retroazione e di rischio endogeno.

Attendiamo quindi con ansia i prossimi sviluppi dei vertici europei. Spiegavamo di essere cautamente ottimisti. E’ certo che l'umanità ha affrontato numerose e esperienze estreme negli ultimi dieci o quindici anni: la crisi finanziaria globale, quella del debito pubblico europeo, i problemi di immigrazione, quelli dei cambiamenti climatici, e ora quelli relativi alla pandemia. Riteniamo verosimile attenderci che, prima o poi, queste lezioni di storia saranno apprese in Europa. Sicuramente l’Europa sta cercando, almeno a modo suo, di reagire all’emergenza con misure mai viste prima, e con diverse proposte. E non deve intimorire il fatto di assistere alla nascita di tante proposte. Se l’Europa è anche un progetto politico, è naturale che le sue risoluzioni coagulino complessi meccanismi di mediazione delle parti. Riteniamo che, nonostante le apparenze, i segnali dei governi europei e anche il comportamento dei mercati lasciano presagire che i tavoli di negoziazione saranno sempre più ordinati nei prossimi mesi. Ci aspettiamo che l'Europa abbia imparato dalle lezioni impartite da una crisi finanziaria e del debito gestita disordinatamente e con ritardo in ambiti prudenziale, fiscale e, persino, monetario; o da una crisi migratoria che non ha saputo farci coordinare con le dovuta responsabilizzazione delle parti. Ad una prima lettura, questi punti appaiono poco rilevanti ai fini della crisi di oggi. Ma non lo sono, perché solo la politica può essere in grado di far dialogare governi con finanze pubbliche così eterogenee. E’ lecito attendersi che i passati fallimenti di coordinamento insegneranno all’Europa l’importanza di affrontare le complesse questioni economiche e sociali nel post-Covid-19.

Questo è il momento di pensare in modo positivo. Ma disturba non poco prevedere che questa pandemia lascerà in eredità un debito pubblico molto elevato all’umanità. Sicuramente, gli economisti, anche quelli di grande stampo liberale, pensano che il ricorso all’indebitamento sia giustificato da episodi come guerre o calamità naturali. Ma alla base di questi ragionamenti vi è l’ipotesi che i governi non siano incauti nell’accumulare debito durante periodi più normali. Non siamo particolarmente preoccupati per l’aumento del debito pubblico in paesi come gli Stati Uniti. Lo siamo per alcuni paesi europei dove, l’accumulo del debito pubblico è stato tale da renderne ora difficile, sebbene non impossibile, la sostenibilità. Questo debito comporterà differenze di competitività internazionali che dovranno essere ben gestite dalle future generazioni: più un sistema economico è oppresso dal peso di un grosso debito, maggiori dovranno essere gli sforzi per rimanere a livello. Stabilità finanziaria e sviluppo economico andranno d’ora in avanti di pari passo. Facciamo dunque debito oggi (non abbiamo altra scelta), ma prepariamoci già da ora a gestirne le conseguenze future. Costruire, oggi, un meccanismo tutto europeo di emissione di debito sicuramente aiuta a contenerne il costo (una componente importante della sostenibilità), ma non a diminuirne il peso nelle società future.

(*) Una descrizione in italiano dell'indice TYVIX è apparsa in un articolo su Il Sole 24 Ore del 15 febbraio 2014.

 

Categoria: Stabilità finanziaria

16 Aprile 2020

Volatilità, VIX e Treasury VIX: dalla teoria ai casi pratici

Tag: Investimenti, TYVIX, VIX

Perché la volatilità dei mercati finanziari ci disturba? Quali strumenti di protezione sono disponibili per mitigare i rischi derivanti dalle turbolenze dei mercati? Come reagisce questa volatilità agli sviluppi macroeconomici globali e di geopolitica? Questi sviluppi potrebbero essere desunti anticipatamente da una lettura della volatilità?

Ho discusso di questi temi con Daniele Bernardi e Gabriele Turissini in un webinar organizzato da OpenPHInance:

Webinar sulla volatilità dei mercati finanziari (15 aprile 2020)

La mia presentazione in formato PDF è qui.

In breve, l’indice VIX di Chicago Board Options Exchange (Cboe), conosciuto al grande pubblico come “indice della paura”, misura l’ampiezza delle oscillazioni dei mercati azionari. In un altro post, ho commentato le dinamiche della volatilità dei mercati durante le fasi iniziali dell’emergenza Covid-19: la volatilità del mercato azionario e quella del reddito fisso sono lungi dall’essere sincronizzate. La Figura 1 lo dimostra in tante circostanze discusse durante il webinar.

In questo webinar, propongo un’esposizione introduttiva degli indicatori di volatilità sul reddito fisso adottati da Cboe, di cui sono ideatore. Il lettore disposto a investire più tempo a navigare le acque della volatilità troverà più ampi dettagli nella sezione dedicata alla volatilità dei mercati finanziari del sito in inglese.

Figura 1. Indici VIX (azionario) and TYVIX (obbligazionario Tesoro) di Cboe.

La presentazione è stata corredata da casi pratici proposti da Daniele Bernardi, una serie di questionari in tempo reale proposti ai partecipanti, domande provocatorie di Gabriele Turissini, e domande finali in provenienza da un pubblico di circa 400 partecipanti.

Categoria: Volatilità dei mercati

23 Giugno 2019

Scontri istituzionali, politiche monetarie e crisi finanziarie (in America)

Tag: Economia reale e mercati finanziari, Indipendenza delle banche centrali, Investimenti, Sostenibilità del debito pubblico

A dispetto di una congiuntura economica apparentemente favorevole, la Federal Reserve ha oramai inaugurato una nuova stagione di tassi d'interesse molto bassi. In un intervento presso le Fonti TV, sostengo l'idea che questa strada potrebbe riaprire la via a fenomeni d'instabilità finanziaria. La banca centrale americana è davvero indipendente? Cosa ci aspettiamo, a questo punto, dalla Banca Centrale Europea? Durante l'intervento, ho anche discusso di unione europea e del rapporto tra deficit e sostenibilità del debito pubblico italiano:

Intervento presso Le Fonti TV (18 giugno 2019)

Per i market-aficionados, durante la stessa giornata, ho anche trascorso qualche minuto a parlare d'incertezza sui mercati americani del reddito fisso e del contenuto informativo desumibile dai recenti movimenti dell'indice TYVIX sui tassi d'interesse calcolato da Cboe (Chicago Board Options Exchange) (l'equivalente dell'indice VIX nello spazio azionario). Un link al video e ai miei commenti è qui. Troverete maggiori dettagli tecnici sui temi delicati intorno alla volatilità dei tassi d'interesse e del credito in una pagina apposita della versione inglese di questo sito.

Categoria: Stabilità finanziaria

13 Giugno 2019

Sul filo del rasoio (e sull’orlo di una crisi del debito)

Tag: Austerità, Debito pubblico, Punti di svolta, Spread

Lavoro da tempo su questo problema. Molti economisti ritengono che un debito pubblico elevato ostacoli la crescita di un paese. Per esempio, si sostiene, un indebitamento eccessivo può segnalare l’arrivo di una maggiore imposizione fiscale, scoraggiando per questa via nuovi investimenti. Ma non siamo tutti d’accordo. Ci ricordiamo dell’acceso dibattito tra Krugman e Reinhart & Rogoff? Le tesi di Reinhart & Rogoff potrebbero avere influenzato i decisori incaricati di gestire la crisi europea del debito pubblico dei primi anni 2010. Nelle stesse parole di Reinhart e Rogoff:

"Nel nostro studio del 2010, trovammo che, nel lungo periodo, la crescita è all’incirca 1 punto percentuale più bassa quando il debito pubblico è più alto del 90 per cento rispetto al prodotto interno lordo."

Carmen M. Reinhart e Kenneth S. Rogoff, 26 aprile 2013, The New York Times

Esistono davvero valori del debito con tali proprietà? Paul Krugman ritiene assolutamente di no. In un recente libro, Austerità: quando funziona e quando no (2019, Rizzoli), Alberto Alesina, Carlo Favero e Francesco Giavazzi hanno riorientato questo dibattito sul come curare la “malattia da debito”. In poche parole, gli autori hanno raccolto evidenza empirica a sostegno dell’idea che un programma di austerità che faccia affidamento sul taglio delle spese è meno doloroso di un programma improntato all’aumento dell’imposizione fiscale.

Mi interesso a una questione limitrofa. Un debito eccessivo può far crescere le probabilità di default. Punti di svolta nella politica di bilancio sembrerebbero dunque inevitabili al fine di limitare questi rischi. Quando avrebbero luogo questi punti di svolta? La mia conclusione è che, a volte, governi troppo attenti al consenso immediato potrebbero decidere di un piano di austerità quando è ormai troppo tardi per scongiurare una crisi finanziaria. In questi casi, la dinamica del debito pubblico sarebbe così fragile da ricordare una passeggiata sul filo di un rasoio, i cui esiti dipendono prevalentemente dalle intemperie della congiuntura economica, e non più dalla volontà degli stessi governi.

In un altro post, spiegavo che la mia non è ovviamente una tesi per cui i deficit primari conducano meccanicamente a un default.

La presentazione è qui.

Il paper è qui.

Categoria: Finanza e macroeconomia

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